Roma Termini 17:53
Sospiro di sollievo.
Inspiro, espiro. Profondamente. Per almeno un paio di volte.
Ho ancora in corpo l’adrenalina provocata dalla fretta provocata dall’idea di un potenziale ritardo che avrebbe censito la perdita del treno delle 18:05 verso Lecce. Inspiro, espiro. Verso casa.
Inspiro, trattengo. Espiro lungamente.
E non me lo sarei potuto permettere. E no, non questo, rispetto a tutti gli altri che ho preso. E no, perché dopodomani mia madre dovrebbe fare il vaccino. Mia madre! Che lei non lo sa, ma in fondo su Facebook le hanno donato la targhetta di “fan più attivo” NoVaxsoprattuttoseèAstra (permettetemi un’iperbole, e pur sempre una boomer stellata, ma di quelle simpatiche).
Fatto sta, che per la prima volta in due anni e mezzo, dopo una media di 5 viaggi in treno al mese (per un valore chilometrico intorno a 100.000 km ed un valore affettivo incalcolabile, senza contare i viaggi in auto in solitaria – i miei preferiti – e i viaggi aerei, un po’ troppo cambio-faccio-blablabla) è la prima volta che arrivo alla soglia del binario prima del treno (ad esclusione di un notturno ICN).
Mentre la fretta abbandonava questo corpo, prima di dedicare del tempo a delle chiamate di lavoro, a dieci minuti della partenza, osservavo le persone che pian piano prendevano il loro posto. Tra questi un signore sulla settantina (e forse anche di più) accompagnato da una giovane ragazza. Tacchi sottilissimi di vernice rosa, un paio di pantaloni blu notte dal taglio classico, una giacca color mattone a righe (che avrei voluto nel mio armadio ad integrare la collezione) ed un leggero foularino sul rosa che le accingeva il collo. Una coda bassa castana un po’ disordinata e un paio di occhiali da sole sottili dalla montatura molto scura in cellulosa.
All’inizio ero distratta. Solo dopo ho capito si trattasse di padre e figlia.
Lei non si è mai seduta e per pochi secondi ho pensato “ecco un’altra adrenalinica come me” (credevo stesse stemperando la fretta).
Poi, invece, fa sistemare suo padre al sedile di fronte al mio. Non condividevamo lo stesso tavolino, era un po’ più in là e, avendo la direzione in senso contrario del treno uguale alla mia, di lui riuscivo a vedere solo un breve accenno di testa spoglia, calotta rosea e capelli bianchi a mo’ di aureola, un po’ come buonanima di mio nonno. Gli toglie la seconda mascherina perché non aderiva bene al volto, la sistema bene dietro le orecchie, lo accarezza: «Papà mi raccomando». Lui insiste: «Vai, vai, sto bene». Un bacio sulla fronte e un: «Ciao amore» rivolto al primo uomo della sua vita.
Abbasso la testa, chiudo le spalle e accovaccio il cuore.
Mentre lei va, mi passa di fronte, ci scambiamo un sorriso d’intesa – del resto siamo due figlie innamorate – e va. Rimane lì, all’esterno, appicciata al finestrino in attesa che il treno parta. Lui le fa cenno di andare via.
«Sa, lavora qui a Roma, tutta sola. Quando ogni tanto vengo a trovarla mi fa le feste»
Quasi come a voler giustificare tanta premura.
Non sono riuscita a vederlo in volto, non ce n’è stato bisogno.
Mi trovavo così a contemplare un finestrino senza vedere altro che quello, con la mia guancia destra divisa in due da una lacrima che diceva tutto.
Poi squilla il telefono, inspiro, trattengo:
«A che ora arrivi amore?»
«Presto papà»
Espiro lungamente.

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