Racconto breve di un che

Viene fuori che avevi un mini monolocale scombinato da qualche parte di cui ti volevi liberare. Non si trovava vicino al mare, né nella capitale, almeno credo.

Non so come ero arrivata a lui, non conoscevo nemmeno il suo nome, fatto sta che nel dirmelo mi aveva fatto un favore. Sarà stato il portiere, suppongo. Era riuscito a fissare un appuntamento tra te e un potenziale nuovo inquilino che, per inciso, ero io e di certo, non ero lì per quello.

Era un palazzo tutto molto legnoso, impolverato ma stranamente illuminato, un po’ di giallo e arancio sparsi tra i gradini delle scale e il pavimento del pianerottolo spazioso, più grande di ciò che avrei trovato aprendo la porta di quello che non volevi più trascinare con te. Chissà mai perché, non ho avuto poi il tempo di pensarci davvero.

«ma proprio ora?! Cazzo!»

Questa la risposta che avevo vagamente percepito mentre il signorone del palazzo ti chiedeva di venire subito. Alto, molto. Magro e decisamente curvo, un po’ stempiato, con pochi capelli ma lunghi fino a toccargli le spalle. Era strano, tra il buffo e l’inquietante. Il volto si sposava perfettamente con i colori e lo stato delle pareti interne di tutto lo stabile, anch’esse di legno, macchiate di verde e di blu. Sembrava farne parte, un pezzo di tappezzeria, un’anima vagante intrappolata in sé stessa. I lineamenti del viso erano tutti mescolati, un grosso naso e palpebre pesanti, gli zigomi calanti, cosi come il mento e il suo tono di voce. Il nostro punto di contatto di lì a poco mi avrebbe fatto entrare in quello che forse, una volta per te, era il covo di qualcosa di importante.

Mi trovavo rimbalzata in un unico ambiente, odorante di non so cosa… di vita, di passato. Una finestra socchiusa e sbilenca faceva trapelare dei fasci di luce dai quali si intravedevano mille e mila particelle di polvere danzanti e contente per una nuova vita che le attraversava. Subito a sinistra c’era un grande letto incorniciato ai quattro angoli da grossi pomelli aranciati. Una sedia vuota nel lato destro, in fondo alla stanza, dove avevo appoggiato giacca, borsa e pensieri. Non tutti. Non subito.

Iniziavo a sentirmi confusa, più del solito, avendo timore di una reazione avversa. Conoscendoti avresti sbraitato qualche parola in quel tuo dialetto che poco mi appartiene e ti avrei risentito chissà quando. Sarebbe stato peggio di una quarantena in piena pandemia. Forse.

Così, cercando di canalizzare quel principio di attacco di panico in qualcosa di utile o che per lo meno mi distogliesse da quel senso di apnea crescente, ho iniziato a guardarmi intorno. Era tutto molto spoglio ma caldo allo stesso tempo. Tutto molto semplice e lineare ma accogliente. Nessun poster alle pareti, che non è da te. Un solo libro poggiato su una scrivania vuota messa lì, in esilio, schiacciata contro la parete. Ai piedi del letto c’era una vecchia cassapanca color mattone e ruggine, conteneva coperte, lenzuola, una scatola rettangolare con penne e un quaderno appuntato di versi, un vecchio porta sigari impregnato di tabacco e qualche cassetta consumata da un mangianastri tempo fa. Ho tirato fuori le lenzuola bianche e una coperta giallo pastello ricamata con gigli stilizzati in rilievo; sistemato il letto, ho acceso l’abat-jour dal paralume fatto a scaglie di vetro verdone, tenute insieme da una spessa circonferenza di ottone invecchiato. Passando la mano sul letto ho disteso quella piccola piega che a malapena si intravedeva. Tutto ero a posto, restava solo l’attesa e il rimbombo dei battiti accelerati che scagliavano il tempo dei miei respiri.

Catturata dall’indeterminatezza di quell’attimo, non avevo prestato attenzione al brusio di fondo che pian piano si faceva spazio, rimbalzando da un tramezzo all’altro.

Non lo sapevo, ma eri arrivato.

Aprendo così piano la porta credo di aver fatto il passo più lento e denso della mia vita nel varcarne una; mi sono voltata a sinistra contando centimetro per centimetro le fasce di legno del pavimento, lunghissime e malconce, sono arrivata con lo sguardo basso fino alla punta arrotondata delle tue scarpe e sono risalita lentamente, molto lentamente, prima di arrivare ad incrociare quegli occhi.

Aspettavi seduto su una vecchia poltrona condominiale sbattuta in un angolo in attesa di liberarti di qualcosa e invece…

In piedi, così, ti avevo difronte, a tutto tondo. Completo grigio, camicia bianca un po’ stropicciata con i primi due bottoni liberi, scartoffie in braccio alla mano sinistra, una sacca in pelle mono-spalla a penzoloni sullo stesso lato. Un po’ più magro dell’ultima volta che ci eravamo visti, ti muovevi, anche se lentamente, come chi non riesce a mantenere la stessa posizione per più di 15 secondi di fila, impaziente.

Mi hai visto. Certo che mi hai visto. Ti sei avvicinato senza fiatare. Nessuno sguardo turbato, nessun andamento arrabbiato. Eri solo sorpreso e indecifrabile come il più delle volte.

Senza dire una sola sillaba, hai lasciato cadere ogni cosa per terra, come piume che toccavano terra in silenzio,  senza fare rumore. Sull’uscio di quella porta nessuno aveva il coraggio di dire qualcosa, né la voglia, né il tempo.

Ho solo sentito all’improvviso quel dolce languore di un bacio violento, di labbra frenetiche di trovarsi, di lingue disperate di abbracciarsi, di salive ormai confuse e mescolate, di mani smaniose di ricordare.

Con i volti che sembravano un tutt’uno, senza far capire dove finiva l’uno e iniziava l’altra, a piccoli passi mi guidavi, facendomi retrocedere in piena fiducia, oltre l’ingresso. La porta è rimasta aperta per pochi secondi, ha avuto solo il tempo di mostrare al vuoto dietro di te l’istante esatto in cui tu mi afferravi la faccia tra le mani, stringevi, mi guardavi fissa negli occhi e, con le pupille nere che si muovevano a destra e a sinistra con estrema rapidità, con la bocca circondata da nero e bianco graffiante così come il resto del basso viso, carico di disperazione, appena prima di abbandonarci a noi stessi, mi dicevi:

«Pucci… non devi pensare al futuro con me, perché non c’è».